SCRITTORI E GUSTO URBANO FRA SETTECENTO E OTTOCENTO
di: Francesco Iengo a cura di Mario Della Penna
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Capitolo XIV (I parte)

THE STONES OF VENICE DI JOHN RUSKIN

Il primo volume di questo libro, fondamentale per la storia del gusto urbano ottocentesco, esce nel 1851, il secondo e il terzo escono nel 1853. Le coese che abbiamo citate, per esempio, di Leopardi, risalgono quasi tutte al decennio 1818-1828. Al 1828 risalgono quelle di Heine e molte di Stendhal. La "città di Dickens" è del 1844.

Con le Pietre di Venezia, dunque, possiamo dire di essere ormai lontani di una generazione dal primo Romanticismo, e in una prospettiva di trent'anni, molti aspetti del secolo XIX si sono chiariti.

Intanto, gli sviluppi in senso capitalistico della rivoluzione industriale, hanno materialmente sconvolto la città insieme a qualsiasi "settecentesca" sua filosofia della proporzione e della misura: l'illuminismo in particolare è stato smentito dalle cose proprio nelle sue idee-forza del progresso civile e sociale, dell'ordinato governo delle trasformazioni, della fiducia nella perfettibilità umana in generale. E' da qui che trae alimento, specialmente negli ambienti dell'intelligencija di estrazione umanistica, la reazione romantica.

Senonchè, il sempre più evidente carattere di irreversibilità della rivoluzione industriale, in breve vanifica lo stesso Romanticismo, piegando verso vacui sogni di arcadiche restaurazioni anche le sue proteste più centrate, oppure neutralizzandone col semplice silenzio i vari ideali di ricomposizione fra cultura e natura, ideali evidentemente irrealizzabili nell'assetto economico e sociale vigente, ovvero nel capitalismo.

E' aperta dunque la strada, verso la metà del secolo, sia ad un tentativo di globale superamento dell'antitesi illuminismo-romanticismo, qual'è quello costituito dal lavoro di Marx (il Manifesto dei Comunisti è del 1848), sia a lavori come, appunto Le pietre di Venezia di Ruskin, significativi anch'essi d'un certo "spirito dei tempi", anche se costretti, in ogni caso, dentro uno spazio soltanto letterario - destinati, cioè, a non poter mai diventare "opinione pubblica" o "programma politico" capace di incidere sullo sviluppo architettonico e urbanistico delle città, sviluppo che continua ad essere dominato dalla sola logica del profitto.

Per Ruskin dunque (come già per Chateaubriand), Venezia rappresenta, non tanto un luogo di ricomposizione della antinomia urbane provocate dalla rivoluzione industriale, quanto piuttosto una pura e semplice utopia realizzata, vale a dire una città che, per la sua particolare morfologia, non ha potuto (e non potrà mai) essere toccata dalla rivoluzione industriale. Se per Ruskin Venezia è pur sempre un'evasione, lo è, comunque, non in un sogno, ma in una realtà concretamente strutturata, e come tale, capace di strutturare, a sua volta, un gusto urbano rinnovato in tutte le sue articolazioni.

E' evidente che, con il Settecento, ogni discorso è più che mai chiuso. Del resto, ciò è puntualmente emerso ogni qualvolta abbiamo anticipato, nel corso del lavoro, il nome di Ruskin.

A petto per esempio della svalutazione "normativa" del mosaico da parte di de Brosses, ecco cosa dice Ruskin dei mosaici di San Marco (e, implicitamente, della poetica settecentesca della vaste pareti vuote):

«La parete della chiesa (nel Medio Evo) diventò necessariamente la Bibbia del povero, e una pittura era letta sopra una parete più facilmente di un capitolo. Da questo punto di vista e considerandoli semplicemente come pitture della Bibbia di una grande nazione nella sua giovinezza, io inviterò finalmente il lettore a esaminare la connessione ed i soggetti di questi mosaici; ma, nel frattempo, io devo deprecare l'idea che la loro esecuzione sia, in qualsiasi senso, barbara (che era l'idea ricordiamo, di de Brosses, e che trapelava ancora in un Goethe). Sono tanto lontano dalla considerarli barbari, che credo che di tutte le opere di qualunque, siano state le più efficaci. Esse stanno esattamente a mezza via fra le basse manifatture di immagini di legno e di cera che affliggono le chiese cattoliche ai giorni nostri, e la grande arte che svia la mente del soggetto religioso per condurla all'arte stessa» (349)

Spiegazione, dunque, d'un testo (i mosaici) con il contesto, secondo uno storicismo orami raffinatissimo; ed inoltre, presenza di varie ideologie già tutte incontrate, come per esempio quella vichiana del mosaico quale arte della "giovinezza" d'una nazione.

Così, Ruskin polemizza oggettivamente con il Settecento anche quando parla del materiale con cui è stata costruita Venezia:

«(I Veneziani si trovarono costretti) o a costruire tutto con mattoni, o a importare qualunque pietra di cui volessero far uso, da grandi distanze, per mezzo di navi di piccolo tonnellaggio, e la cui velocità era basata più sui remi che sulle vele. La fatica ed il costo del trasporto sono uguali, sia che si importino pietre comuni che pietre preziose, e quindi sorgeva la naturale tendenza a fare ogni carico di navi del maggior valore possibile. Ma in proporzione colla preziosità della pietra, sta la difficoltà di potersene procurare: limitazione determinata non solo dal costo, ma anche dalle condizioni fisiche del materiale, perchè non si possono avere, con qualunque somma di denaro, molte lastre di marmo superiori a una certa dimensione» (350)

Ecco uno dei motivi fondamentali - continua Ruskin - sia della familiarità dei Veneziani colla pratica delle inserzioni di frammenti antichi in costruzioni moderne, sia dello splendore della loro città, dovuto in gran parte a questa pratica: basti pensare alla "facciata di San Marco (diventata) più un reliquario a cui dedicare lo splendore delle varie prede, che l'espressione organizzata di una legge architettonica o di una emozione religiosa" (351).

A suo tempo (1728), anche Montesquieu aveva notata la grande varietà di marmi esistenti a Venezia, e ne aveva data una spiegazione quasi in termini di "necessità" storico-economica (un pò come a Genova, dove aveva trovato che i signori "hanno palazzi non perchè spendano, ma perchè il luogo fornisce loro il marmo"):

«Non esiste una città che abbia più marmi di Venezia. I Veneziani presero Costantinopoli e ne portarono via moltissime colonne, inoltre s'impadronirono della Grecia e dell'Arcipelago subito dopo gli imperatori d'Oriente, ed hanno preso tutti i marmi che hanno voluto"» (352)

Che è una nota quantomeno ambigua, perchè insinua che quei marmi i Veneziani li abbiano utilizzati più per inerzia che per elezione, mentre Ruskin dice l'opposto: i Veneziani hanno saputo trasformare una serie di necessità in una splendida singolarità - e sembra emergere, qui, anche quel principio della "sfida" e "risposta", che sarà di Arnold Toymbee.

Ma a Montesquieu, e alla sensibilità che questi rappresenta, Ruskin risponde oggettivamente anche quando discorre del senso dell'architettura gotica. Come sappiamo, Montesquieu, con molta parte del suo secolo, stimava quest'architettura adatta soprattutto alle chiese. Scrive Ruskin invece:

«Noi attribuiamo, ai giorni nostri, una specie di uso sacro all'arco a sesto acuto e al soffitto ogivale, perchè mentre noi abitualmente guardiamo fuori da finestre rettangolari e viviamo sotto soffitti piatti, incontriamo le forme più belle nelle rovine delle nostre abbazie. Ma quando furono costruite quelle abbazie, l'arco a sesto acuto veniva usato per ogni porta di bottega così come per quella del chiostro, e il barone feudale ed il predone banchettavano, così come il monaco cantava, sotto i tetti a volta; non perchè si credesse che le volte fossero particolarmente adatte alle orgie e ai salmi, ma perchè allora essa era la forma con cui più facilmente si sapeva costruire un tetto resistente. Noi abbiamo distrutta l'architettura elegante delle nostre città: e ve ne abbiamo messo al posto una del tutto priva di bellezza e di significato; e quindi ragioniamo, relativamente allo strano effetto che esercitano sulle nostre menti quei frammenti che, fortunatamente, abbiamo lasciato nelle nostre chiese, come se quelle chiese fossero state sempre fatte con lo scopo di ergersi in forte rilievo su tutti gli edifici circostanti, e l'architettura gotica fosse sempre stata quello che è ora, un linguaggio religioso, come il latino della chiesa» (353)

Ruskin, dunque, rovescia letteralmente i canoni estetici del razionalismo e dell'illuminismo settecentesco, ed è per questo che può essere a buon diritto considerato un congruo coronamento di tutto il discorso romantico. Del resto, egli è anche colui che teorizza addirittura la fine del "gigantismo" (barocco, ma anche del Settecento, se pensiamo specificamente a certe soluzioni urbanistiche del secolo) in quanto fattore di qualificazione d'un'architettura. Il titolo della VII Legge, infatti, fra quelle ch'egli stabilisce come inderogabili ai fini d'un costruire apprezzabile, suona: "Che l'impressione dell'architettura non deve dipendere dalle dimensioni", mentre i diritti d'un edificio all'attenzione dell'osservatore, dipenderanno dalla delicatezza di disegno delle sue parti, dalla loro perfezione quanto a colore, preziosità quanto a materia, e interesse quanto a leggenda - tutte qualità comunque indipendenti dalle dimensioni e, in parte, anche inconciliabili con esse (354)


(349) JOHN RUSKIN, op. cit., pp. 109-110.

(350) Ibid.  p. 87

(351) Ibid. pp. 87-88

(352) MONTESQUIEU, Viaggio in Italia, cit., p. 32. Alla stessa ideologia obbedirà, ancora alla fine del Settecento, FRANCESCO MILIZIA, quando (op. cit. p. 551) scriverà che "piantarsi in mezzo al mare su piccole isolette e farvi poi sorgere una sorprendente Venezia sarà effetto d'un bisogno produttore di angustie e non di libero premeditato disegno".

(353) JOHN RUSKIN, op. cit., p. 103. E' questa una pagina che, sia pure a più di due secoli di distanza, può considerarsi di risposta ad un'altra di ALESSANDRO TASSONI (Paragone degli ingegni antichi e moderni, cit. vol. II, p.59), in cui il gusto barocco di Tassoni esalta le moderne abitazioni private proprio su quelle, si direbbe, gotiche, così privilegiate, invece da Ruskin: "Le fabbriche antiche private non erano da paragonar con le nostre: imperocchè que' loro vestibuli e portici da barbogi, che ingombravano le strade, e quelle loro facciate a bisquadro, piene di finestrelle archeggiate e tramezzate di colonnette doppie, che oggidì paiono gabbie da grilli, non hanno punto che fare con le ampie, aperte e dritte facciate moderne, ricche di finestre sì, ma di finestre grandi magnificamente ornate e compartire con quella proporzione e distanza, che le sale e le camere riecheggiano".

(354) JOHN RUSKIN, op. cit., p. 271.


Theorèin - Maggio 2008